Che fare?

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Va bene, insomma, è andata così. Ma adesso cosa farete?

Cosa fare dopo la spranga è sull'Unita.it, e si commenta qui, (ma anche qui, e magari in altri posti che non so). In bocca al lupo a chi ne ha un gran bisogno.

Cosa fare dopo la spranga


Se c'è qualcosa che ho trovato discutibile, nelle parole di Saviano sugli scontri di Roma, è l'evocazione degli anni anni di piombo, “la trappola degli anni '70, di cui si sente già il puzzo”: l'idea, insomma, che gli incappucciati di lunedì diventino, man mano che si alza la tensione, i brigatisti di domani. È una teoria suggestiva, che si è sentita tante volte, e che a mio parere non funziona. La spranga non conduce alla p38, così come la canna non porta infallibilmente all'eroina.

Proviamo per una volta ad accantonarli, quei puzzolenti anni '70, e a dare un'occhiata al passato più recente. Dieci anni fa, per esempio, in Italia c'era un movimento composito e più o meno organizzato che aveva per obiettivi i vertici internazionali. Tute bianche a nord, Rete No Global a sud, e una spolverata di anarcoinsurrezionalisti qua e là, oltre ai fantomatici Black bloc dal nord Europa. Anche a quei tempi di spranghe e di caschi se ne videro parecchi, anche allora la repressione fu pesante. Bene, dove sono i 'violenti' di dieci anni fa? Hanno formato gruppi terroristici? No, non è successo. Nessuno è entrato nelle vecchie organizzazioni, come le Br, ridotte a una setta di reduci; nessuno ne ha fondate di nuove. A meno di non voler contare i bombaroli dei cassonetti, quegli anarchici informali che sono pure l'organizzazione terroristica autoctona oggi più temuta dal ministero degli Interni (il che equivale a dire che oggi non esiste una organizzazione terroristica italiana degna di nota).

Persino nei momenti più difficili, quando a Genova i manifestanti furono caricati e torturati con una brutalità sistematica che non aveva precedenti, nemmeno il più esagitato attivista prese mai seriamente in considerazione l'opzione del terrorismo. La stagione della p38 è finita, in Italia e in generale in Europa: semmai sono stati gli anni Settanta un'eccezione, nata e alimentata all'ombra della cortina di ferro, in una situazione geopolitica che non esiste più. Tirarli fuori è un riflesso condizionato dei reduci – che a questo punto vanno verso la sessantina. Chi è più giovane dovrebbe preoccuparsi d'altro.

Per esempio: se dopo la spranga non c'è la P38, cosa c'è? Ecco, il problema è un po' questo. Per Berlusconi c'è la campagna elettorale, che paradossalmente è cominciata proprio col voto di fiducia del 14 dicembre; e dal suo punto di vista non poteva iniziare meglio. L'immagine di Piazza del Popolo a ferro e a fuoco era esattamente quello che gli serviva per dimostrare ai suoi tele-elettori di età medio-avanzata che l'unica alternativa a lui è il Caos. Il favore reso dai vandali a Berlusconi è tanto evidente che siamo stati in molti, a caldo, a pensare agli infiltrati. È un sospetto che rimane legittimo, anche dopo che è stato identificato il ragazzo del famoso “cappotto marron”; se non altro perché certi metodi in Italia sono stati usati più volte, Cossiga insegna; ma visto che mi ero ripromesso di non parlare più dei '70, mi basta ricordare che di infiltrati ce ne furono a Genova, che si misero perfino a fabbricare molotov; e se nel frattempo i quadri della polizia non sono troppo cambiati, gli uomini al governo sono più o meno gli stessi. Certo, per trasformare un corteo in una battaglia non basta una manciata di agenti provocatori; eppure alcuni dettagli restano inquietanti: quel camion di cantiere pieno di badili e pale, lasciato in bella mostra a pochi passi dal Senato; il modo in cui la camionetta dei finanzieri è stata lasciata in prima fila, quasi a fare da esca, che ricorda in modo sinistro la dinamica di Piazza Alimonda.

Detto questo, diversi studenti hanno probabilmente scelto la spranga convinti che quella fosse l'unica opzione praticabile in quel momento. Sono stati messi in condizione di farlo da un governo che finora ha irriso le loro richieste, e al momento giusto li ha messi all'angolo, col vecchio trucco della 'zona rossa'. È andata così: ma adesso? Cosa succede dopo la spranga?

Potrebbe anche non succedere più niente: la spranga sarebbe semplicemente l'inizio della fine. A volte è successo. La risposta di molti giovani (e meno giovani) a Saviano è stata: non c'eri, non puoi capire, è da un anno che manifestiamo pacificamente e non succede nulla, adesso siamo stanchi. La spranga come segno di disperazione, di stanchezza. Ci può stare. Il problema è che di solito dopo la stanchezza e la disperazione non viene nulla di buono: la rassegnazione, il più delle volte. Qualcuno si radicalizzerà, raccogliendo le provocazioni del governo che blatera di "daspo" e "arresti preventivi". Qualcun altro non raccoglierà; ci saranno distinguo e secessioni; qualcuno, semplicemente se ne andrà, come il quindicenne che era in piazza a tirare verdura alla polizia, aggredito da un cappuccio nero, che si è svegliato all'ospedale e ha già fatto sapere che nei cortei non verrà più: uno in meno. Altri emigreranno all'estero, altri resteranno e si rassegneranno a un futuro difficile, magari aspettando la prossima riforma sbagliata, la prossima ondata di protesta, la prossima repressione.

Io però voglio essere ottimista: la spranga potrebbe anche essere un errore da cui si impara. Gli studenti che in questi giorni sono entrati in sciopero della fame sono già entrati con molta serietà in una fase diversa, ugualmente rischiosa, ma lontana dalle trappole mediatiche. Certo, non si tratta semplicemente di dire “no” al tafferuglio, ma di inventarsi qualcosa di nuovo. Anche in questo caso ci sono precedenti: chi ricorda Genova nel 2001 non dovrebbe dimenticarsi che l'anno dopo ci fu il Forum Mondiale di Firenze, tre meravigliosi giorni di incontri e non di scontri, per la stizza di Oriana Fallaci che era venuta apposta a fiutare il sangue e i fumogeni, e trovò una festa di gente che discuteva di tagli alle emissioni e Tobin Tax (le cose di cui oggi, troppo tardi, si parla ai vertici veri).

Il guaio è che a distanza di così pochi anni di quel Forum non si ricorda quasi più nessuno. Delle mazzate di Genova, sì, ci ricordiamo. Persino delle p38 degli anni Settanta, che sono roba dei nostri genitori, a volte dei nonni. Ma dei grandi cortei pacifici contro la guerra in Iraq no, si è quasi persa la memoria. È come se il tempo spazzasse via tutto, gli errori e le cose buone che abbiamo fatto, e ci lasciasse soltanto il ricordo delle mazzate che abbiamo preso o dato. E questo, purtroppo, resta il più grande argomento a favore della spranga.http://leonardo.blogspot.com
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- com'eravamo

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Torto marcio

"Ma pensa che c'è gente che ancora si vanta di essere andata a Genova nel 2001!"
"Intendi al G8?"
"Tu guarda st'ignoranti..."
"Saputelli".
"Cacasotto".
"Picchiatori"
"Pacifisti".
"Terrioristi. Ma per cosa lottavano, poi, te lo ricordi?"
"Ma quelle cose lì, contro il governo e il commercio globale, non vogliamo un mercato del lavoro troppo competitivo, eccetera. Le solite cazzate da figli di papà"
"Pezzenti".
"Superficiali"
"Pesanti".
"Inconsistenti"
"Testardi. E naturalmente ce l'avevano con Bush".
"Di già? Ma che gli aveva fatto?"
"E che ne so. Il protocollo di Kyoto… Le cazzate sull'inquinamento e il risparmio energetico… La verità è che non si fidavano di un petroliere. I soliti dietrologi".
"Ingenui".
"Catastrofisti".
"Immaturi"
"Veterocomunisti".
"E Bush cosa gli disse?"
"Ma niente, lui era blindato nel porto, manco li vide. Deve aver detto: chi ci contesta ha torto marcio".
"Torto marcio? Come si dice in inglese?"
"E che ne so, lo lessi in italiano. Comunque rende l'idea".
"Aveva ragione. Erano solo dei velleitari".
"Dei nichilisti"
"Anarchici"
"Fascisti. E mi sembra d'aver detto tutto".
"E già".
"Ma cosa stai leggendo?"
"Io? Ah, è il libro di Tremonti. Avvincente. Te lo consiglio".
"Tremonti?"
"Interessante, molto interessante. Non la solita politica italiana da riunione di condominio. È un'analisi geopolitica di largo respiro".
"In poche parole…"
"In poche parole spiega che la società italiana sta correndo dei terribili rischi a causa del Wto, l'Organizzazione del Commercio Mondiale. Specie da quando è entrata la Cina, che non rispetta i diritti civili ed è molto competitiva sul mercato del lavoro".
"Forte Tremonti, eh?"
"Fortissimo. A proposito, hai sentito l'ultima di Bush?"
"Se ne va dall'Iraq?"
"No, no. Al discorso sullo Stato dell'Unione ha detto che gli USA sono dipendenti dal petrolio".
"Ha detto così?"
"Ha detto così: prima o poi dobbiamo ammetterlo, the United States Is Addicted to Oil. Che coraggio, eh?"
"Certo che quando ha ragione ha ragione".
"Cercheranno di importare meno petrolio dall'estero. E investiranno più soldi nei combustibili alternativi".
"Chiamali scemi. Adesso come adesso i soldi del petrolio arabo vanno agli emiri, gli emiri pagano la decima a Hamas, e alla fine col rifornimento di un gippone americano ci si finanzia il terrorista di Hamas. L'unico boicottaggio serio è smettere di comprargli il petrolio".
"Ed è anche una buona idea per l'ambiente. Con tutti 'sti uragani…"
"Quell'uomo è sempre pieno di buon senso".
"Peccato che in giro ci sia così poca gente ad ammetterlo. Specie da noi".
"Eh, ma cosa vuoi. Son tutti dei pecoroni".
"Bastian contrari".
"Carichi di pregiudizi".
"Segaioli".
"Selvaggi".
"Signori «so tutto io»"
"Incompetenti".
"Buoni a nulla e capaci di tutto".
"Smidollati".
"Paranoidi".
"Schizzati".
"..."
(Repeat and fade)
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Descrizione di una battaglia

(Bozza. Continua da ieri)

Nel saggio conclusivo Paolo Ceri afferma che i movimenti…

…sono caratterizzati dall’insolita combinazione di mobilitazione e partecipazione. Tale combinazione […] è generativa del movimento, al punto che il suo attenuarsi o squilibrarsi provoca il dissolvimento o la trasformazione del movimento in qualcosa d’altro. Se a declinare è la partecipazione spontanea (alle decisioni e alla vita associativa), il movimento si radicalizza, fino a trasformarsi in setta, oppure diviene puramente rituale. Se a venir meno è la mobilitazione, esso subisce un processo di istituzionalizzazione, fino a diventare un attore del sistema politico. Date queste differenze, si capisce come per i movimenti la posta in gioco – la scommessa – sia quella della durata che, in luogo d’essere questione di purezza ideologica, è questione d’equilibrio vitale tra una partecipazione effettiva e una mobilitazione spontanea.

Partecipazione. Mobilitazione. Altrove si parla di “concezione funzionale” e “concezione processuale”; di “azione” contro “consenso”: io mi metto subito a immaginare un gruppetto di persone che dice: “dobbiamo fare questo e quello entro la tale data”… e un altro che replica: “un attimo, chi siete voi per dirlo? Fermiamoci un attimo e ragioniamo su come deve funzionare il movimento”. Il dialogo può proseguire per molto tempo: nell’ultimo stadio il gruppo “azione” viene accusato di leaderismo, e il gruppo “consenso” di paranoia. Questa esperienza l’abbiamo vissuta in molti. Ma forse le cose sono un po’ più complesse. Ceri soggiunge: “col tempo e le risorse intellettuali necessarie, una storia sociologica dei movimenti potrebbe essere realizzata proprio ricostruendo le dinamiche e i rapporti tra mobilitazione e partecipazione”.

Questa “storia sociologica” m’interesserebbe. Posso proporre un contributo? Per me sarebbe opportuno distinguere tra Movimento del 20 luglio e del 21 luglio. Cerco di spiegarmi.

Il Movimento non ha una vera data di nascita, ma indubbiamente ha una data “di esplosione”: il 21 luglio del 2001. Genova è un big bang. Ma tutta l’energia che si disperde nell’universo nei mesi successivi, da qualche parte esisteva già. L’anno precedente una serie di associazioni di volontariato e gruppi di base (di matrice non solo cattolica) si erano messi “in rete” con Lilliput: nella primavera del 2001 molti gruppi, per lo più della sinistra post-marxista (ma non solo), si erano ritrovati a una prima assemblea preparatoria di Attac; i centri sociali erano ormai parte del paesaggio urbano da vent’anni, e negli ultimi due o tre avevano anche iniziato a far parlare di sé come centri delle nuove “tute bianche”. Semplificando al massimo, si può dire che l’obiettivo di Genova aveva fatto sì che una serie di realtà frammentate si coagulassero in due o tre sigle riconoscibili. Questo coagulo accelera proprio nei giorni di Genova: i Disobbedienti, si sa, nascono allo stadio Carlini, dall’incontro delle tute bianche del nord-est e dalla Rete no global del sud (che in un primo momento si chiamava “Rete del Sud Ribelle”). Talmente eccezionale è l’appuntamento con gli “otto grandi della terra”, che questi grandi coaguli, appena nati e quindi fragilissimi (ma anche molto entusiasti) sentono subito il bisogno di connettersi tra loro, di formare un fronte unito. Questo incontro avviene sotto il “cappello” del Genoa Social Forum, che all’inizio era semplicemente il coordinamento delle associazioni che avevano partecipato al World Forum di Porto Alegre.

Questo è più o meno lo stato dell’arte del Movimento, il 20 luglio del 2001: una varietà enorme di sigle, associazioni, gruppi e gruppetti, coagulati in tre o quattro macro-gruppi “di affinità” (il termine è di matrice anarchica, ma credo che renda bene l’idea), che dialogano tra loro (e con il resto del mondo) attraverso il Genoa Social Forum. In realtà non è un fronte così unito: è una composizione ancora fragile e magmatica. Segno di questa situazione è la scelta, mai abbastanza biasimata, di dividere le manifestazioni del 20 luglio in più “piazze tematiche”, dove i macro-gruppi (Attac, proto-disobbedienti, Lilliput, Cobas…) possono rivendicare pratiche e identità diverse. Sappiamo tutti benissimo com’è andata. Le “piazze tematiche”, separate tra loro in una città blindata, sono facili prede per l’infiltrazione e la repressione. A un certo punto il GSF dà l’ordine di “rientrare a Piazzale Kennedy”: qui la maggior parte dei manifestanti scopre cos’è successo tra Corso Torino e Piazza Alimonda. Scopre che i portavoce della sinistra istituzionale stanno invitando a non partecipare al corteo del giorno dopo. La sera del 20 luglio del 2001 il Movimento è isolato e solo. E lo stesso GSF mostra crepe abbastanza evidenti.

Il big bang avviene il mattino dopo. Il lungomare di Genova si riempie di manifestanti arrivati solo quel mattino. Sono arrivati ignorando gli inviti di partiti e sindacati. Sono venuti malgrado le scene di violenza proiettate in tv. Sono centinaia di migliaia – non tantissimi, in realtà, negli anni successivi ci abitueremo ad adunate molto più massicce: ma sono sensibilmente molti di più che il giorno prima. E la maggior parte non rientra in nessuno dei grandi macro-gruppi. È così che il 21 luglio del 2001 ci accorgiamo che Attac, Lilliput, gli stessi centri sociali, in fondo non sono che piccoli luoghi di concentrazione di un movimento molto più vasto. E che non si può più pensare al Movimento, come si era fatto ancora il giorno prima, come un insieme di piazze tematiche collegate fra loro: se non bastasse il vecchio adagio, “divided we fall”, è stata la repressione poliziesca a insegnarcelo, sulla nostra pelle.

Dal 21 luglio 2001 al settembre dello stesso anno, assistiamo a un fenomeno curioso e impressionante: in Italia nascono i Social Forum. Senza che nessuno sappia, esattamente, cosa sono e come dovrebbero funzionare. Lo stesso nome è del tutto involuto: è un calco dal “Genoa Social Forum”, che si era dato un nome inglese perché a Porto Alegre e poi a Genova aveva co-ordinato gruppi italiani ed esteri. Da semplice coordinamento di associazioni, il GSF è diventato qualcosa di più importante (e più inquietante): un archetipo, come lo definisce nel suo saggio Gian Luca Fruci.
Ma in realtà i nuovi Forum hanno poco a che vedere con l’originale GSF: sono gruppi che in molti casi nascono dal basso, dall’iniziativa di persone che non si riconoscono in nessun altra associazione di riferimento.
Nelle province dell’impero la confusione è grande. In vari centri esistevano già molti gruppi sensibili ai temi del Movimento: molti avevano partecipato a Genova, e in quei mesi stavano organizzando i primi embrioni di Attac o Lilliput. Quando arriva l’onda d’urto dei Social Forum: ovviamente gli stessi personaggi sono investiti in pieno, né possono sottrarsi dall’opportunità di farsi conoscere a un pubblico più vasto. Succede così che al Movimento “20 luglio” (quello dei macro-gruppi, delle piazze tematiche, dei centri sociali) si sovrapponga il Movimento “21 luglio”, il movimento dei “social forum”. Nella sovrapposizione è inevitabile che ci siano tensioni tra i gruppi, ma in generale sembra che tutti abbiano da guadagnare: le prime assemblee si fanno in grandi sale, si vedono un sacco di facce nuove. È un’esplosione d’interesse che prosegue anche dopo l’11 settembre, anzi: la sensazione che “nulla sarà come prima” rende tutti un po’ più attenti ai temi del Movimento. Una serie di scadenze ben definite aiuta gli attivisti a non disperdersi. Per un po’ sembra che debba nascere un Forum Sociale Italiano. Poi la tensione si allenta, e di Forum Italiano si smette di parlare.
Nei mesi successivi, la spinta propulsiva del big bang si esaurisce. Le facce nuove smettono di affollare le assemblee: i forum esistono ancora, ma sotto i forum s’intravedono sempre più evidenti i gruppi pre-esistenti. Quelli del 20 luglio. A tre anni di distanza, questo libro lo testimonia abbastanza fedelmente: su otto capitoli, uno è dedicato a Lilliput, uno ad Attac, uno ai centri sociali, uno al Commercio equo e solidale, uno agli anarchici (e al black bloc). Nel sommario riaffiora così la vecchia distinzione in piazze tematiche.

Attenzione: questo non significa che i forum non esistano più; ce ne sono ancora parecchi. Ma non sono più le adunate assembleari dell’estate 2001: in alcune città esistono ancora come tavolo di confronto tra vari gruppi (si è tornati insomma al modello 20 luglio); in altri casi sono sopravvissuti specializzandosi su alcuni temi: in pratica sono diventati anche loro “gruppi di affinità”, che si incontrano periodicamente, seguono campagne e organizzano iniziative. In pratica, hanno smesso di essere luoghi di partecipazione: sono diventati, anche loro, gruppi di mobilitazione. Del resto anche in Lilliput, dopo l’ondata costituente, gli organismi che hanno dato più prova di funzionare sono i GLT, “gruppi di lavoro tematico”: piccoli tavoli di persone interessate a uno specifico problema. In Attac mi sembra di assistere a una tendenza analoga. Quanto ai Centri Sociali, ci si chiede se in fondo non abbiano sempre lavorato così.

Se c’è una “crisi” del Movimento, insomma, è una crisi di partecipazione. Per contro, le mobilitazioni riscuotono ancora qualche successo. Ha vinto il gruppo dell’“azione”, quello che sin dall’inizio pretendeva di dettare il calendario. E come ha vinto? Per sfinimento. La democrazia è una cosa sfibrante, specie quando è partecipata. Si salva soltanto chi è particolarmente motivato, chi ha il tempo per partecipare alle riunioni infrasettimanali, chi ha la possibilità di dedicare un week-end a un’assemblea, ecc..

Io però non me la sento di biasimarli. Temo che abbiano vinto anche perché avevano ragione loro. Io ero stato tra quelli che aveva sopravvalutato il 21 luglio: pensavo che dopo il big bang nulla sarebbe stato come prima. Pensavo che dopo la sfilata sul lungomare di Genova, in Italia ci fossero almeno 300.000 persone interessate a partecipare alle decisioni del Movimento. Non era esattamente così. Il popolo del 21 luglio ha frequentato, sì, le assemblee, ma non era così interessato a partecipare ai meccanismi decisionali. In realtà veniva soprattutto a informarsi sulle successive scadenze. Dopo il 21 luglio ci sono state due Perugia-Assisi, e il 23 marzo, la grande manifestazione della CGIL. Poi c’è stato l’anniversario di Genova. Poi il Forum Sociale Europeo a Firenze. Poi la marcia contro la guerra a Roma. Il popolo del 21 luglio non si è perso un corteo. Tanto ama i bagni di folla, quanto disdegna le assemblee. Per lui tutte queste iniziative sono, essenzialmente, una forma di protesta: ieri contro la globalizzazione, oggi contro la guerra. Che il movimento potesse essere anche altro, un esperimento di democrazia, è un pensiero che l’ha appena sfiorato.

Questa forma di partecipazione ‘debole’ è ben rappresentata, secondo me, da due realtà particolari: il negozio di Commercio Equo e Solidale e il Centro Sociale. Apparentemente hanno poco in comune: di solito li immaginiamo frequentati da persone diverse. Però, guarda caso, sono due “luoghi” inseriti nel tessuto urbano, dove la gente può entrare anche se non condivide gli assunti ideologici degli organizzatori. Non c’è bisogno di essere noglobal, anarchici, sandinisti: ci si può limitare a essere clienti. Così come il Commercio Equo è un negozio alternativo, il Centro Sociale è un locale alternativo (nei casi migliori è molto di più, ma la maggior parte degli ‘utenti’ lo considera in questo modo). Si può decidere di entrare a far parte della cooperativa, o del Centro Sociale: occorrerà entrare in una rete di relazioni complesse e non sempre formalizzate, e, soprattutto, lavorare: impegnarsi, dimostrarsi degni di fiducia, assumersi delle responsabilità. Ma si può anche decidere di non fare nulla di tutto questo, di limitarsi a entrare, comprare il tè biologico o ascoltare un concerto a prezzo politico. Ecco, secondo me molto spesso la dicotomia tra mobilitazione e partecipazione ha assunto questo aspetto: da una parte una minoranza di attivisti a tempo pieno, impegnatissimi e un po’ matti; dall’altra la massa, anzi, la moltitudine dei clienti: quelli del 21 luglio. (Quante volte in mezzo a un corteo ci è sembrato di essere a un concerto).

Capita a tutti nella vita di trascorrere alcuni anni navigando a vista. Non sappiamo esattamente dove stiamo andando, e ci aggrappiamo alle scadenze. Non chiediamo più la luna, ma di arrivare alla fine del mese. E anche al Movimento, non chiediamo più una rivoluzione, ma un calendario di iniziative. E forse biasimiamo con troppa leggerezza chi si fa in quattro per offrirci le nostre occasioni mensili di mobilitazione. In ogni caso la scommessa di far convivere mobilitazione e partecipazione era persa in partenza. Non lo dico io, lo dice Ceri:

Si tratta di una scommessa che, per loro natura sociologica, i movimenti sono destinati a perdere. Si tratta di una sconfitta che, beninteso, è condizione necessaria perché il loro potenziale di modernizzazione e di rinnovamento democratico possa trasfondersi nelle istituzioni. Tutto dipende, quindi, da come e quando si compie la «sconfitta».

Il Movimento, insomma, deve morire per dare un buon frutto. Ma che frutto sarà? In cosa consiste questo “potenziale di modernizzazione”? Ceri e i suoi colleghi guardano a tutte le pratiche di democrazia partecipativa, agli esperimenti fatti in questi anni. Io non sono altrettanto sicuro. Mi guardo indietro e ho la sensazione che il maggior regalo che il Movimento farà alla società saranno le persone. Persone che in questo periodo hanno partecipato a riunioni e assemblee, hanno sbandato tra partecipazione e mobilitazione, hanno sperimentato, hanno chiesto e dato fiducia, e si sono fatte riconoscere tra i loro compagni. E domani potrebbero ritrovarsi trasfuse nella nuova classe dirigente. Non sarebbe neppure la prima volta.

Purtroppo, queste trasfusioni di solito si fanno al netto delle ideologie. La classe dirigente non ha bisogno di idee, quanto di organizzatori capaci. E il Movimento, si è visto, sta selezionando proprio queste figure: gli esperti di mobilitazione. Oggi in piazza, domani nelle stanze dei bottoni?
È una prospettiva un po’ avvilente. Ceri e i suoi colleghi sono molto più ottimisti. Il futuro darà ragione a me o a loro: è uno di quei casi in cui preferirei avere torto.
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Descrizione di una battaglia
(bozza)

La democrazia dei movimenti. Come decidono i Noglobal. A cura di Paolo Ceri, Rubbettino, 2003

Non so se si possa dire, dei saggi di sociologia, che “si leggono in un fiato”: fatto sta che io l’ho letto davvero in un fiato, questo saggio di sociologia: e questo vorrà dire qualche cosa. Almeno due.
La prima è che, evidentemente, si tratta di un testo molto leggibile, scorrevole e non prolisso: fatto tanto più lodevole in quanto non si tratta di un saggio solo, ma di una raccolta di piccoli saggi composti da sette autori diversi (quasi tutti giovani ricercatori), diretti da Paolo Ceri. Il risultato però è un quadro d’insieme armonico: un testo scientifico che funziona anche come opera divulgativa.
La seconda cosa è più personale. Il libro sarò anche leggibilissimo: ma se l’ho letto d’un fiato è anche perché avevo bisogno di leggerlo. Non si divorano testi scientifici per pura curiosità: qui c’era qualcosa di più. In questo libro stavo cercando qualcuno che mi raccontasse la mia Storia. Perché, non la conoscevo già? Non più di quanto non la conosca il combattente nel mezzo della battaglia. (Nessuno ti spiega quel che succede nel mezzo della battaglia: questa verità, ben nota a Fabrizio Del Dongo e alle generazioni attraversate da guerre mondiali, noi l’abbiamo scoperta solo da Genova in poi).
Quello che cercavo in questo libro era – per dirla con una parola che improvvisamente, oggi, si comincia a sentire in riunioni e assemblee – una narrazione. La riorganizzazione delle mie esperienze, frammentarie, confuse, contraddittorie, in un racconto. Possibilmente a lieto fine – ma in fondo mi contentavo di meno. Mi sarebbe bastato trovare un senso a tutto quello che era successo e che tuttora ci succede. Mi contento di poco?

C’è stato un periodo – 2001, 2002 – in cui ho partecipato a molte assemblee, riunioni, cortei, organizzati da una serie di sigle diverse, ponendomi spesso una domanda non retorica: ma il Movimento è democratico? Ce lo siamo chiesti in molti. In teoria sì: il Movimento nasceva proprio dall’esigenza di rinnovare la democrazia, di scuotere gli apparati decisionali delle istituzioni politiche, di trovare o creare nuovi luoghi di partecipazione alle decisioni. In pratica, però, in quei mesi si trattava di partecipare ad assemblee con ordini del giorno fittissimi di iniziative e contro-iniziative, e in fondo non c’era nulla da decidere: o si aderiva, o non si aderiva. Chi stilava l’ordine del giorno, chi teneva il microfono in mano (e sceglieva a chi darlo), rischiava grosso: se si metteva troppo in luce poteva essere accusato di tentato leaderismo. Accusa pesantissima. D’altro canto, non si poteva nemmeno perdere tempo a decidere un meccanismo di rotazione dei portavoce, o un metodo formale per raggiungere le decisioni; parole come “delega” e “rappresentazione” erano bandite; e soprattutto: non c’era tempo. C’erano troppe cose da fare.
(C’era, naturalmente, un “gruppo di lavoro sulla democrazia interna”, ma non riusciva mai a inserirsi all’ordine del giorno [vedi questo vecchio pezzo]).

Dopo qualche mese è diventato evidente che l’emergenza non sarebbe mai finita. Non solo perché vivevamo in tempi eccezionali – in pochi mesi Genova, l’11 settembre, la guerra in Afganistan, la Palestina… – ma soprattutto perché quest’idea dell’“emergenza”, del calendario fitto, era diventata parte integrante del nostro modo di pensare, di agire, e di rimandare il problema della democrazia. Ma non potevamo rimandarlo per sempre. E così, a un certo punto, lo abbiamo affrontato. C’è stata una lunga stagione costituente, burrascosa e incostante, che ha attraversato gran parte del Movimento: i saggi del libro documentano le fasi alterne di questa stagione della Rete di Lilliput, Attac, i Forum Sociali. In tutti e tre i casi abbiamo assistito a qualcosa di simile: i gruppi che avevano fondato e ‘organizzato’ questi movimenti (e che avevano portato avanti le iniziative nei giorni dell’emergenza) sono stati contestati. Non si contestavano le persone, né quello che avevano fatto fino a quel momento. Si contestava il solo fatto che ci fosse da qualche parte un tavolo di portavoce, un direttorio, un “governo”. Così Lilliput ha rifiutato il ruolo di coordinamento del Tavolo Intercampagne; così Attac ha vissuto una forte dialettica tra consiglio direttivo e comitati locali; così il Forum Sociale Italiano, che doveva costituirsi, non è mai nato. “Rappresentanza”, “delega”, “portavoce”, rimanevano parole tabù. Tabù era diventato anche prendere una decisione per alzata di mano. Dal saggio di Francesca Veltri scopro finalmente in cosa consistesse quel famoso “metodo del consenso” adottato da Lilliput. È un sistema piuttosto complesso che consente a un’assemblea di arrivare a decisioni comuni senza votazioni e scontri interni (grazie anche all’ausilio di assistenti neutrali, detti “facilitatori”). Pare che funzioni, ma richiede molto tempo. E del resto Lilliput sembra aver deciso di prendersi tutto il tempo che vuole (“all’interno di Lilliput sta prendendo piede l’idea di rifiutare totalmente la presa di posizioni a carattere urgente, considerate incompatibili con la specifica struttura del movimento”). Si passa così dall’emergenza infinita al rifiuto del solo concetto di emergenza. Dal calendario fitto al calendario vuoto: perché no? Ma si può ancora chiamare Movimento, qualcosa che non si dà più nessun tipo di scadenze? Si “muove” ancora?

Il grande dibattito sulla democrazia attraversò anche il nostro piccolo forum sociale. Finalmente il gruppo di lavoro sulla democrazia interna poté relazionare. Ci furono i consueti diverbi, risolti probabilmente con il metodo del consenso o qualche altra pratica sfibrante – e alla fine anche il nostro Forum ebbe il suo regolamento scritto. La sua democrazia formalizzata.
Dopodiché accadde qualcosa di un po’ inquietante: io – che mi ero sempre lamentato della mancanza di democrazia del forum – smisi per un po’ di andarci. Non mi appassionavo più.
Ma non è successo solo a me. Le assemblee hanno cominciato a svuotarsi. Attenzione: non le riunioni operative, non i banchetti nelle strade, non i cortei: le assemblee. I luoghi dove, in teoria, la democrazia avrebbe dovuto essere partecipata. E invece sembrava che nel 2002 gran parte degli attivisti fossero ancora interessati a seguire iniziative e marciare dietro striscioni, e sempre meno a partecipare alle decisioni. L’Assemblea Nazionale di Lilliput, nel gennaio 2001, mi sembra un caso tipico: per la prima volta il “Metodo del Consenso” viene utilizzato in un’assemblea su scala nazionale, e… pare proprio che funzioni! Ma funziona anche perché quell’assemblea nazionale in realtà è piuttosto ridotta: si presentano soltanto 300-400 persone. E gli altri? Ricordiamo che Lilliput non accetta il concetto di delega. O meglio: gettata dalla finestra, la “delega” viene recuperata dalla finestra col nome più rassicurante di “fiducia”. Ma è davvero un passo avanti? Non è anche un segno di stanchezza? Dopo aver rifiutato meccanismi formalizzati di rappresentanza, molti lillipuziani si sono limitati a “fidarsi” dei compagni che avevano il tempo, o la voglia, di recarsi alle assemblee. Lilliput è solo un esempio: la stessa cosa è accaduta un po’ ovunque.

Dal 2002 in poi credo che tutte le assemblee si siano, non dico svuotate, ma ‘asciugate’: dove prima c’erano trecento persone ora ce ne sono cinquanta, dove ce n’erano cinquanta ora ce ne sono dieci, ecc.. Chi è rimasto?
In molti casi sono rimasti gli uomini dello stato d’emergenza. Quelli che nella prima fase tenevano il microfono, stilavano l’ordine del giorno, si assumevano la responsabilità delle iniziative. Quelli che rischiavano di passare per verticisti, e in certi casi lo erano davvero. Quelli che in molti casi hanno assistito alla stagione costituente con una smorfia di fastidio. Ma come mai hanno resistito proprio loro? Non era finita, l’era delle emergenze? E perché loro non si sono stancati, e gli altri sì? Avrei tanto voluto che qualcuno me lo spiegasse. Anzi, no, che me lo raccontasse. (Continua)
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Senza pudori, credo che stavolta abbiamo vinto (solo una battaglia, naturalmente).
E per dimostrarlo, mi comporterò da vincente. Di quelli veri, che non sfottono l'avversario sconfitto, anzi riconoscono le sue ragioni, e i propri torti. Ora, lo so, ci vuole impegno a riconoscere delle ragioni a una Fallaci o a un Socci che accusa Agnoletto di connivenza con Pol Pot; d'altro canto, ci vuole della fantasia a biasimare il sindaco che apre la città a seicentomila pacifici dimostranti. Ma io non mi tiro indietro, come ben sa Madame.

Comincerò attestando la mia solidarietà al vecchio Scajola. Solo perché se n'è andato, ora tutti fingono che le cose siano migliorate d'un colpo. Per la verità dopo Genova ci sono state parecchie altre manifestazioni a rischio, tra le quali ricordo Roma un anno fa e Genova quest'estate. Tutte finite bene, e Scajola stava al Viminale. Non cambio idea sulle sue (ir)responsabilità, ma gli do ragione quando dice che Genova ha insegnato qualcosa a tutti. (Per esempio, l'equazione "+ divise in giro, + casini nelle strade", veramente poco intuitiva, ma ormai suffragata dai fatti).

E ammetto che se fossi stato al posto del sindaco di Firenze, non so se avrei avuto altrettanta fiducia nelle sorti della manifestazione. Perché è vero, c'era stata Roma in novembre e poi Genova in luglio, ma il Forum Europeo era un'altra cosa. Oltre i confini (che Schengen non ha affatto cancellato) il Movimento è molto diverso, ma noi italiani siamo forse troppo attaccati alle nostre locali grettezze per accorgercene. È più corpuscolare, più marginale, naturalmente più radicale: non a caso ha eletto l'Italia sua patria d'adozione, malgrado le Diaz e Bolzaneto. Sa di poter contare, in Italia, su amministrazioni amiche, masse critiche in corteo e, se le cose si mettono male, infermieri e avvocati gratis. Ci vorrà ancora un po' di tempo prima di vedere una marea di seicentomila dimostranti invadere pacificamente le strade di Parigi o Berlino per il corteo di un Forum.
Agnoletto e Casarini, nel bene e nel male, sono ormai diventati comparse nel teatrino tv italiano; ma il movimento europeo è un terreno per lo più sconosciuto. Le varie sigle straniere suonano sempre minacciose (curioso come "Resistance" faccia molta più paura di "Resistenza"). Chi garantisce per tutta questa gente? Come si fa a separare gli anarcoinsurrezionalisti dagli anarcoragionevoli? Le famose informative dei servizi dovrebbero servire a questo; purtroppo dai tempi degli aeroplanini e del sangue infetto sono destituite di qualsiasi credibilità e non hanno altra utilità che quella di fornire spunti per i titoli di Libero e Giornale, o all'on. Frattini, che martedì 29 ottobre riferiva al parlamento (segnalato sulle news di repubblica):

C'è gente dei movimenti anarchici, ci sono gli attac tedeschi ed i globalize che abbiamo visto all'opera a Genova nel 2001. Il governo - rileva Frattini - non poteva non informare il Parlamento.

Voglio sperare in un crampo dello stenografo di Repubblica, perché queste sono parole troppo goffe e imprecise per appartenere davvero al ministro per la Funzione pubblica con delega ai servizi segreti. I "Globalize" magari saranno quelli di "Globalize Resistance" (che a Genova non hanno combinato un bel niente, tra l'altro); quanto ad Attac Deutschland, potrebbe persino sporgere querela contro il ministro del CDC…CDD… DCU… non mi ricordo il nome del partito… d'altro canto perché mai un tizio che ha un blog dovrebbe essere più preciso di un Ministro della Repubblica?

La vera notizia non è che i soliti noglobbal italiani si siano comportati bene. Questo, anzi, succede ormai con una certa stucchevole regolarità. Ma che i manifestanti europei abbiano, spero definitivamente, rinunciato a certe tattiche che si erano rivelate controproducenti, che abbiano insomma sepolto la spranga: questa è la novità importante. Fino a pochi mesi fa l'argomento di molti casseur europei era il seguente: un bancomat rotto fa più rumore di cento botteghe equo-solidali aperte. (E infatti, per fare un esempio, Ferrara avrebbe dato qualcosa per poter mettere un bancomat rotto in prima pagina lunedì, ma fino a l'altro ieri non conosceva il concetto di commercio equo e solidale). È un argomento diabolico, perché convincente, ma del tutto integrato alla società dello spettacolo e dell'auditel. Sono felice che sia stato superato dalla stragrande maggioranza degli attivisti europei – ma fino a sabato non ne potevo essere sicuro. Complimenti al sindaco, per la sua fiducia. Ma se fosse stata malriposta?

E soprattutto, devo ringraziare chi ha permesso al Forum di attirare l'attenzione della grande maggioranza degli italiani, e guardate che non era facile. A gente come Socci, Zeffirelli, ma soprattutto alla Fallaci. Dobbiamo avere l'onestà intellettuale di ammetterlo: senza di lei gran parte dei reporter e dei commentatori starebbe ancora in Molise a spremere lacrime e sangue da quella povera gente. Di questi tempi, con tutte le manifestazioni che si fanno, il Forum sarebbe scivolato fin troppo liscio nel rumore di fondo. È stata lei a creare l'evento, più di qualsiasi teppista o casseur. Credo che molta gente abbia preso il biglietto per Firenze dopo aver letto il suo pezzo – del resto lo stesso Agnoletto, con la sua faccia da medico della mutua, accostato a Pol Pot assume una statura epica.

Bene così? Sono risultato abbastanza vincente? Abbastanza convincente? Lo so, faccio quel che posso. Avrei ancora qualche cosa da dire ma… un'altra volta. Segnalo un ultimo blog, Mim*mina, che ha fatto un'ottima cronaca delle giornate di Firenze. Grazie per l'attenzione – che non sempre mi merito – e alla prossima.
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“Se dipendesse dal Movimento il futuro dell’umanità, aiuto!"
Luca Casarini

Ai lettori:
questa settimana siete in tanti, e non mi è chiaro il perché: ma sospetto che abbia qualcosa a che vedere con Firenze.
Mi preme dunque avvertirvi che, causa lavoro, a Firenze io ci andrò solo venerdì sera, e non sono certo il blog più qualificato per fornirvi notizie fresche. Madame arriverà un po' prima, e spero si porti il portatile con sé. E mi aspetto molto anche dalla sana curiosità della Pizia.
Non avranno problemi di connessione i blog fiorentini e toscani. Ce ne sono tre o quattro davvero buoni, che del Forum hanno già parlato negli scorsi giorni: Franco, Giornale di Cantiere , Samuele Venturi e Qqg. Quest'ultimo avverte: "abito a duecento metri dall'ESF". Peerò. In bocca al lupo.

A un livello superiore, non credo che sia più necessario lincarvi Indymedia (ma facciamolo).
Passando al giornalismo ufficiale, troverete fin troppi aggiornamenti sullo speciale di Vita e su Mir. E per ora, basta.

(Lincare è come fotocopiare: una droga sostitutiva della lettura. Al quarto anno di università non leggi più, fotocopi. Al quarto anno di internet cominci a lincare siti che non leggi, così almeno li leggeranno gli altri. Ma sto cercando di smettere, o almeno calare la dose).

Magari però voi venite qui perché vi aspettate qualcosa d'altro... Eh, sì, a dare link sono buoni tutti, ma quel certo non so che, quello stile leonardo, quel tipo di post buffo che sa un po' di lacrimogeno...
Ancora una volta, mi dispiace deludervi, ma non sono in vena. Sarà l'età, sarà la prevedibilità.
Per esempio, avrei voluto dare dell'idiota a Urbani, che vuole vietare i cortei nelle città d'arte, vale a dire (lui probabilmente non lo sa) il 95% delle città italiane. Ma ci ha già pensato Bruno.

Volevo dire che Casarini, ehm, ha un po' rotto, sarebbe ora che si facesse da parte. Ma ci ha già pensato Casarini, in un intervista, ahimé, al Foglio (via Wittgenstein).

Volevo fare una riflessione su quanto è cambiato il mondo a 16 mesi da Genova, ma ci ha già pensato Riccardo Orioles su Gnu Economy.

Volevo fare un po' di disinformazione, spararla grossa, minacciare di fare uno scarabocchio sulla Primavera di Botticelli, ma ci ha già pensato un deficiente su GQ, la rivista delle tette per la classe dirigente.

Volevo dirne quattro al Riformista, sempre più anni '80, ma... che palle. Volevo dirne quattro alla Fallaci, ma.... pietà. Anche la Fallaci è una creatura del buon dio.

O no? Sulla prima pagina web del Corriere c'è il menu seguente: Video -Forum -Fallaci -Audio. La Fallaci ormai non è più un essere umano, è un link, è un dispositivo di livore: se schiaccio "video" scarico un video, se schiaccio "Fallaci" scarico l'ennesima scenata invereconda.
Vediamo cos'abbiamo oggi... ecco, per lei io sono un falso rivoluzionaro, un figlio di papà (ancora!), una falsa colomba, amo Bin Laden mentre Saddam Hussein, chissà perché, lo rispetto soltanto. Bene. Per il Riformista sono soltanto un protezionista, un conservatore bi-millenarista che... che piacerebbe a Bossi. Beh, è bello sapere che piaccio almeno a qualcuno.

Tutti costoro sembrano avere idee molto chiare su me, su voi. Sarebbero onestamente stupiti, e forse terrorizzati, se scoprisserto cos'è veramente il FSE: per prima cosa, una grande confusione di lingue e di idee. Dove magari c'è anche qualche protezionista e qualche amante di Ben Laden, insieme con tutto e il contrario di tutto. Dove nessuno, per dirla proprio con Casarini, ha la ricetta per salvare il mondo. Dove tutti, però, per dirla con la Pizia, sono piuttosto curiosi. E questo è già qualcosa.

Il Movimento non salverà l'umanità, ma ha restituito la curiosità a un bel po' di individui, compreso il sottoscritto. Si trattasse solo di questo, varrebbe già la pena del biglietto.
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bevevano i nostri padri?La sinistra si sbraca

È finita la prima fase. Peccato.
Vedo che anche Erik sta recuperando la serietà. Un po’ mi rincresce. La prima ondata di messaggi da Porto Alegre aveva confermato una mia impressione, e cioè che, malgrado i nostri amici si trovassero in situazioni diverse, alloggi diversi, dibattiti diversi, ecc., una cosa li accomunasse: erano tutti un po’ fuori di testa.
Effetto, questo, senza dubbio, del bilancio partecipativo, che la sera ti sale alla testa e ti fa ballare fino a un’ora tarda con gli altri delegati di tutto il mondo, finché la luce di un nuovo giorno non ti ricorda che presto sarà ora di partecipare a un nuovo dibattito, magari in portoghese senza sottotitoli. È dura la vita del delegato.

In questo quadro, il "simpatico scoop" di Francesco (sì, Frieri), aggiunge una nuova istantanea al dossier della nuova sinistra irriverente, la sinistra che si sbraca. Dopo il Moretti lucido e insieme allucinato che grida “con questi qui non vinceremo mai”, ecco a voi l’Agnoletto ubriaco e il Folena timido al balcone. Vediamo di che si tratta.

Lo scoop riguarda Agnoletto. Il leeder (questo sì che è un lapsus, boia d’un mond leeder) del movimento alloggia nello stesso albergo dei parlamentari di Rifondazione, Berinotti compreso, nonché dell'onorevole Folena. Agnoletto è rientrato ubriaco all'albergo con un gruppo di attivisti, ma invece di appropinquarsi al letto alle tre di notte, ha pensato di smaltire la sbornia organizzando un coro a squarciagola "Folena libero, Folena rosso" sotto le finestre dell'esponete diessino, peraltro già oggetto di contestazioni insieme agli altri ulivisti. Folena non ha acceso la luce, qualcuno ha protestato alla polizia per schiamazzi nottturni.
Porto Alegre è anche questo, e la festa notturna del Partito dei Trabajadores risente dell'allegria del carnevale; Casarini, anch'egli ubriaco, balla malissimo.


Francesco vuol maldestramente far pensare che a Porto Alegre, durante il Forum, ci siano soltanto due italiani ubriachi per le strade alle 3 di notte: Agnoletto e Casarini. Dai, Francesco, e tu invece passavi di lì per caso, come al solito…
…ma nessun corrispondente al mondo, mai, userebbe il verbo ‘appropinquarsi’ da sobrio.

Posto che secondo me Agnoletto ubriaco valeva da solo il prezzo del biglietto aereo, il vero protagonista dell’episodio è il povero Folena, già se non sbaglio gran sultano della Sinistra Giovanile, (e quindi, presumo, esperto in gite sociali e convegni con annesse scorribande notturne negli alloggi femminili), costretto a rimanere chiuso nell’albergo mentre fuori imperversa il carnevale. La sinistra perde anche per questi motivi, direbbe Panebianco. E lo diciamo anche noi. Folena, dai, scendi giù, divertiti un po’, spacca il naso a quel pelato, sfogati. O la gente continuerà a pensare che sei abbronzato perché ti fai le lampade. E la sinistra perde anche per questi motivi.
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Ventimila in piazza contro il Global Forum, ma la polizia chiude le porte. Quando una parte del corteo cerca di sfondare con sassi e bastoni il cordone che "protegge" piazza del Plebiscito gli agenti sbarrano ogni uscita e suonano la carica. Sono eccitati e su di giri.
La battaglia dura meno di un'ora ma è violentissima. Almeno in duecento passano dal pronto soccorso, i fermati sono una quarantina. Alla fine i poliziotti tornano nelle strade a raccogliere come trofei le bandiere lasciate per terra.
(Dal "Manifesto" del 18 marzo)

Il segreto di Pulcinella
Quando si vede un manganello, bisogna almeno assumersi la responsabilità di dire: questo è un manganello. La globalizzazione, le multinazionali, cose indifendibili, lo sappiamo. Comunque questo è un manganello. Girava nelle mail la settimana scorsa.
Anche la polizia, quando mena, è indifendibile, e io non starò qui a fare pasolinismi a braccio. Ma non trovo nulla di eroico nell'affrontare la polizia con "sassi e bastoni". Sarebbe ridicolo, se non fosse criminale. Perché poi alla fine le prendono sempre quelli più sprovveduti, quelli che credono di partecipare a una manifestazione non violenta (ma loro non l'avevano visto, il Pulcinella con manganello?)
Come sarebbe andata al Global Forum lo si sapeva già. Cosa fosse esattamente questo Global Forum, non è mai interessato a nessuno. Discutevano del divario tecnologico tra Nord e Sud del mondo: non mi sembra che si meritassero manganellate. Voler irrompere a un forum "con sassi e bastoni " che significato aveva, esattamente?
Qualsiasi vertice internazionale sta diventando il pretesto per queste battaglie campali, che ogni volta sono più violente. Il pretesto per la polizia di scatenare le sue energie peggiori. Così tra un po' in Italia non sarà più possibile fare una manifestazione pacifica. In fondo, non è improbabile che tra tre mesi il ministro degli interni sia un uomo di AN, o magari un leghista (lo abbiamo già avuto). Forse è proprio quello che ci stiamo aspettando? O ci stiamo aspettando che ci scappi un morto, un martire della globalizzazione?
Per quanto possa interessare, io dico la mia: il movimento anti-globalizzazione italiano è vittima, ancor prima che delle cariche della polizia, delle frange estreme che si comportano da agenti provocatori, facendo il possibile affinché una manifestazione degeneri puntualmente in rissa. Armarsi con patetici surrogati delle tute antisommossa dei 'nemici', vestirsi in bianco per dare maggior risalto televisivo al sangue, sono atteggiamenti che non hanno niente a che vedere con la protesta democratica. C'è una bella differenza tra un non violento e un kamikaze (questo è il segreto di Pulcinella).
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Il calembour della settimana
È sempre il Manifesto che ci regala il calembour più esilarante della settimana scorsa:

[Martedì 14 marzo: Crisi politica in Giappone:]
Vedi la balena gialla e poi Mori

Per apprezzare al meglio la finesse del gioco di parole bisogna sapere che:

1. Mori è il premier liberaldemocratico (e forse dimissionario) del Giappone.
2. I partiti liberaldemocratici sono universalmente conosciuti come "balene".
3. I giapponesi sono famosi per essere "gialli".
4. C'è un minaccioso proverbio che recita "Vedi Napoli e poi muori"

Il gioco di parole è estremamente divertente anche per quella sua coloratura romanesca, che piace sempre a tutti.

Invece, a proposito di Napoli: venerdì il Manifesto diceva che il netstrike contro il Global Forum è funzionato, ma secondo la Repubblica non è vero, i server della Fineco hanno retto.
A chi credere?
(Ma tutto sommato, che un netstrike funzioni o no, gliene è mai fregato qualcosa a qualcuno?)
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